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Perché scrivere? Per conoscere

Perché scrivere? Per conoscere

 

 

 

Perché scrivere? Per conoscere

 

 “Cercasi casa per un bambino di un mese: completa rinuncia (complete surrender). Contattare il box…”

 

 Potrebbe sembrare un incipit intrigante. E ci si potrebbe chiedere perché scrivere proprio queste parole.

 

Qualche volta, la realtà è ancora più spettacolare dei prodotti della fantasia

 

 Conoscere la storia e perché scrivere

 

 L’annuncio risale al 1942. 

 Inghilterra, una donna molto in difficoltà lo pubblica su un quotidiano. 

 Rose – è il nome della donna – ha partorito da un mese un bimbo, nato da una relazione extraconiugale mentre il marito è sotto le armi. Evidentemente, per la situazione e per la guerra in corso, non vede altra scelta per lei che darlo in adozione, rinunciando completamente ai propri diritti di genitore su di lui. 

 Risponde all’annuncio la famiglia Sharp; un giorno di dicembre, il piccolo viene consegnato ai genitori adottivi nella stazione ferroviaria della città di Reading (e anche il nome della città, ve lo assicuro, è realtà).

 Al bambino viene dato nome Dave. 

 A 14 anni, Dave scopre di essere stato adottato. Otto anni più tardi muore la madre  adottiva (anche lei di nome Rose). Il ragazzo comincia a rivolgere al padre adottivo Pierce domande rispetto alla sua famiglia di origine, ricavando l’informazione di essere stato preso in adozione “attraverso un giornale”. 

 

 Diversi anni più tardi, morto il padre adottivo, mentre sta riordinando la casa dei genitori, Dave ritrova il ritaglio di giornale del 1942 in cui riconosce l’annuncio in cui viene offerto in adozione dalla madre naturale. 

 È solo quando ha 60 anni, però, che decide di contattare il “Salvation army family tracing service” (Servizio dell’Esercito della Salvezza che recupera informazioni sulle famiglie). 

 Rintraccia così la madre naturale, che è affetta da Alzheimer e non è in grado di rispondere alle sue domande. Una sorella della madre, però , visto anche lo stato in cui si trova la signora Rose,  gli racconta la storia d’amore tra sua madre e David McEwan, un ufficiale dell’esercito scozzese, e della sua disperata decisione di ricorrere all’adozione. 

 La zia gli rivela anche il seguito: il marito di Rose è morto sul fronte di guerra in Normandia, consentendole così di sposare David McEwan, padre naturale di Dave.

 Sei anni più tardi, a Rose e David nasce un altro figlio, a cui viene dato nome Ian.

 

 Perché scrivere fa bene

  Cominciate a capire? È la storia dello scrittore Ian McEwan. Nel 2007, fu lui stesso a raccontarla ai giornali, dopo essere stato contattato da Dave. 

 Nel 2008, viene pubblicato il libro Complete surrender, in cui Dave Sharp, aiutato da Ian, racconta l’intera vicenda.

 

 Ho ricostruito questa affascinante vicenda per parlarvi di un aspetto dello scrivere, forse il più interessante da un punto di vista psicologico. In altri articoli, ho affrontato il tema del complesso rapporto fra uno scrittore e i suoi personaggi.

 

 Oggi invece vorrei soffermarmi su un punto, stimolata dalla storia (vera) di Ian Mc Ewan, scrittore molto prolifico, nei cui romanzi (soprattutto quelli scritti prima del 2007) ho sempre percepito una grande “urgenza” narrativa, e una raffinata capacità di entrare nella mente dei personaggi e di  sondarne le emozioni e i conflitti. 

Penso che ricorderò per sempre, ad esempio, “Il giardino di cemento” o “La ballata di Adam Henry”.

 

Credo che alcune persone abbiano non solo la capacità di scrivere, ma il bisogno di farlo, perché la scrittura narrativa è per loro uno dei possibili strumenti di conoscenza.

 

In modo simile (ma più intenso e ricco qualitativamente) a quanto accade nella lettura, lo scrittore che inventa personaggi e situazioni scopre nuove parti di sé: lati ancora in penombra, non ancora esplorati.

 

Un altro aspetto dello scrivere

 

Se ripenso, però, alla vicenda di Ian e alla sua ricca produzione letteraria, rifletto anche su un altro aspetto dello scrivere.

 Le cose non dette “risuonano” nelle famiglie: dalle cose più piccole ai grandi segreti inconfessabili, dagli avvenimenti più piacevoli alle comunicazioni negative, ciò di cui non si parla esplicitamente può venire agito. 

 I bambini piccoli (come ben sanno gli psicoterapeuti che si occupano di prima infanzia) sono, in questo senso,  grandi recettori. I bambini (in particolar modo quelli inferiori ai sei anni) non utilizzano esclusivamente il linguaggio per comprendere o comunicare.

 Quante volte avete detto (e sentito dire) che “i bambini hanno le antenne radar”, in riferimento alla capacità infantile di cogliere da uno sguardo, una postura, il tono della voce quello che l’adulto non intendeva comunicare? I bambini, molto più degli adulti, colgono gli aspetti non verbali della comunicazione. 

 E le comunicazioni non verbali veicolano soprattutto gli aspetti emotivi e relazionali. Ad esempio, un certo gesticolare, una postura, possono rivelare lo stato ansioso di una persona, anche se sta parlando della propria serenità. Il modo di interagire fra due persone rivela molto spesso in che rapporti siano fra loro, anche se non sentiamo il loro discorso.

 Alcuni bambini mantengono questa sensibilità al non verbale (e quindi a cogliere emozioni e relazioni da gesti e postura) anche quando imparano a destreggiarsi con il linguaggio. 

 

Scrivere e le possibilità dell’immaginazione

 

Uno dei libri di Ian McEwan ha per titolo “L’inventore di sogni”, qualcuno di voi lo ricorderà, è un libro per l’infanzia. Racconta la storia di Peter Fortune, ragazzo considerato un po’ strano dagli adulti, perché molto distratto. Peter ha una grande immaginazione, e produce sogni ad occhi aperti.  Uno dopo l’altro, i suoi sogni lo aiuteranno ad affrontare le difficoltà della sua quotidianità e lo traghetteranno verso l’adolescenza.

 Credo che l’immaginazione, tradotta nella scrittura narrativa, abbia questa possibilità: apre una strada ad una possibile conoscenza autentica non solo di aspetti di sé non ancora esplorati, ma anche degli aspetti emotivi, affettivi e relazionali della realtà umana che ci circonda.

 

 Un caro ringraziamento, anche questa volta, a Paolo Mazzo per la fotografia.

 

 

 Ti è piaciuto l’articolo? Leggi gratis un estratto del mio libro!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Perché leggere è appassionante

 

E ci può essere utile nei momenti difficili 

 

 Tempo fa mi occupavo, professionalmente, di persone anziane. 

 

Nella terza età, le manifestazioni cliniche legate alla depressione – nelle sue varie forme, dai disturbi affettivi ad una vera e propria patologia –  sono molto frequenti.  I familiari chiedono l’intervento dello psicologo perché gli anziani si isolano, sono sempre tristi, non vogliono uscire di casa.

 

Ho incontrato, in quegli anni, molte persone per valutazioni e consulenze psicologiche. In alcuni casi ho avviato delle psicoterapie. Con molte difficoltà e, ogni tanto, qualche successo.

 

Gli anziani che incontravo, molto spesso, assumevano una terapia farmacologica, ansiolitica o antidepressiva, in alcuni casi anche da molti anni. Era difficile “ingaggiare”, entrare in relazione terapeutica con soggetti di questo tipo. Inoltre, mi sentivo in contatto empatico con i familiari che spesso soffrivano molto per i comportamenti dei loro cari. 

 

Lettura e scrittura: il conforto della carta

 

Come spesso mi è accaduto nella vita professionale, ho cercato aiuto e conforto nella carta.

 Ho cercato libri e articoli scientifici che parlassero dell’argomento. Vi parlerò oggi, in particolare, di uno scritto dello psichiatra Paolo Migone, letto in quel periodo e risultato non solo confortante, ma anche illuminante, in particolare per un aspetto.

 Nell’articolo, Paolo Migone commenta e riflette su uno studio effettuato negli U.S.A. da I. Kirsch e dai suoi collaboratori (con modalità coraggiosamente molto diverse rispetto a tutti gli studi allora disponibili) riguardo all’efficacia dei farmaci antidepressivi. È molto interessante. Se è stato proposto a voi o ai vostri familiari di assumere farmaci antidepressivi o ansiolitici, ve ne consiglio una lettura attenta.

 

Professionalmente, la lettura di quell’articolo ha rinnovato la mia fiducia nel valore e nelle potenzialità degli strumenti non farmacologici nei disturbi affettivi, nelle depressioni, nelle demenze. Da allora in poi, ho approfondito, studiato ed applicato varie tecniche che si sono rivelate molto spesso efficaci, anche in patologie così gravi.

 Nell’articolo si dice un’altra cosa molto interessante:

 “Kirsch suggerisce un’altra possibilità, quella di usare interventi molto meno costosi, come la ginnastica o la ‘biblioterapia’, che hanno un effetto terapeutico dimostrato (…)”.

Biblioterapia e uso professionale della lettura

Nel leggere “biblioterapia”, la sensazione è stata simile a quella dell’accendersi di una lampadina in una stanza buia: amavo i libri e la lettura da sempre, ed ora scoprivo che avrei potuto utilizzare questa passione anche professionalmente! Già conoscevo, invece, il valore della attività fisica come stabilizzatore dell’umore.

Sono molto grata a Marco della Valle per il suo corso on line di biblioterapia, che ho frequentato in quel periodo, in cui ho appreso che c’è una differenza fra la biblioterapia clinica (praticata all’interno di un percorso di psicoterapia, e quindi nell’alleanza di lavoro con il paziente ed in un clima di fiducia) e la biblioterapia di sviluppo, quella che ha per obiettivo l’accrescimento ed il benessere e che può essere svolta da bibliotecari, insegnanti o da altri operatori formati per farlo.

Negli ultimi anni, ho iniziato a  utilizzare la biblioterapia clinica nei percorsi di psicoterapia individuale. Sono contenta di poter fare un uso professionale della passione per la letteratura.

Leggere è terapeutico

Leggere è un’attività che consente di de-centrarsi rispetto alle proprie difficoltà psicologiche. Quando il clima terapeutico lo permette e si trova il libro giusto per quel paziente, ne suggerisco la lettura. Se il percorso funziona, trovo nel testo scritto (un romanzo, un saggio, una biografia…) un valido alleato.

Per carattere, sono portata a non “tenere solo per me” quello che scopro utile e interessante. Quindi, ho iniziato a praticare anche la biblioterapia di sviluppo. Sono felice quando un’amica, una conoscente o una collega mi chiedono di consigliare loro un libro da leggere, o che possono regalare. 

A partire da ottobre 2019, ho avviato un gruppo di lettura. Leggere e discutere di libri insieme ad altri appassionati di letteratura  è per me un’esperienza preziosa, per la quale sono profondamente grata a tutti i partecipanti. La pandemia non ci ha fermato, ci siamo regolarmente incontrati tutti i mesi su una piattaforma telematica. Non eravamo abituati a farlo, ma ci siamo riusciti!

Leggere, ne sono convinta, trova il suo valore non solo nell’ampliamento delle conoscenze possibili e nella moltiplicazione dei punti di vista su un problema. Mentre seguiamo le vicende di un protagonista e dei personaggi in un romanzo (e con loro ci identifichiamo, se il testo è ben scritto) ci immedesimiamo nella vicenda raccontata.

I libri giusti per nutrire la mente

Certo, non è facile trovare i libri giusti, quelli che fanno per noi, fra tutti i testi in catalogo e in uscita. Alle volte, vi può capitare di incappare in libri decisamente brutti, mal scritti. Oppure con cui non vi sentite in sintonia in quel periodo. Non fermatevi, però, a queste difficoltà. Così come, se informati, possiamo scegliere quali cibi introdurre nella nostra bocca per una buona alimentazione, così è realizzabile (anche facendoci aiutare, naturalmente!) avvicinare un buon testo per nutrire la nostra mente.

Molte sono le parti di noi e della nostra personalità. Alcune sono ancora inesplorate, anche se ormai siamo adulti e abbiamo molta esperienza di vita e di relazioni con altri. 

L’identificazione con i personaggi di un testo ci può consentire di avere accesso ai lati di noi che ancora non conosciamo, e di vederli evolvere, crescere, maturare. E prendere il volo.

 

 La foto anche questa volta è di Paolo Mazzo, e la fotografia ritrae la casa “M’ama non m’ama” dell’architetto Diego Peruzzo.

 

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Fiori di quarantena: la crescita psicologica nella pandemia

Fiori di quarantena: la crescita psicologica nella pandemia

Fiori di quarantena: la crescita psicologica nella pandemia

 

 

Sarà stato perché quella in corso è una primavera davvero particolare, ma ho visto immagini di fiori condivise ovunque: un modo forse per ricordare la bellezza che ci attendeva, là fuori, dove la natura sembrava respirare e prendersi nuovi spazi, mentre l’umanità era bloccata nel suo letargo obbligato.

 

I fiori erbacei non sono gli unici ad essere spuntati in quarantena: anche psicologicamente  abbiamo scoperto nuove identità, ci siamo interrogati sulla nostra crescita, abbiamo ripensato al concetto di “umanità” e siamo (forse) maturati… fioriti, appunto. 

 

 

Fiori cresciuti nel dolore?

Certamente, non per tutti il periodo della pandemia è stato “tutto rose e fiori”. 

Chi si è ammalato, chi ha sofferto per una patologia o per la perdita dei propri familiari è stato messo duramente alla prova. Ma l’evoluzione dell’umanità insegna che il processo per superare le difficoltà di una fase della vita, anche la più complicata, può essere il motore per lo sviluppo di processi positivi. Gli esperti la definiscono crescita post traumatica (ad esempio, Zoeller & Maecker, 2006). Negli ultimi anni, si è molto studiata l’esperienza soggettiva di chi, vissuta e superata un’esperienza traumatica (una grave malattia, un lutto, un evento catastrofico), riferisce cambiamenti psicologici positivi.

Crisi e creatività

 

Potenzialmente, tutti i periodi di crisi sono momenti creativi. La difficoltà, la mancanza, il dolore, le necessità possono portare la mente umana a percorrere vie inedite per cercare di raggiungere comunque i propri obiettivi, e quindi a inventare soluzioni nuove per problemi antichi e presenti.

Ne parla Jared Diamond nel suo recente saggio Crisi . Come rinascono le nazioni (Einaudi, 2019):

«Tutti, a ogni livello, si trovano prima o poi ad affrontare crisi e spinte al cambiamento. Tutti, nessuno escluso: dai singoli individui ai gruppi, alle aziende, alle nazioni, fino al mondo intero. (…) Per affrontare in modo positivo le pressioni interne o esterne è necessario un processo di cambiamento selettivo, e questo vale tanto per le nazioni quanto per gli individui.

Individui e nazioni devono innanzitutto valutare onestamente le proprie capacità e i propri valori: decidere quali parti di sé restano adeguate anche nella nuova realtà e sforzarsi coraggiosamente di riconoscere ciò che invece va cambiato. L’obiettivo è individuare nuove soluzioni in armonia con le capacità e le caratteristiche di ciascuno. Al tempo stesso è necessario tracciare un confine intorno agli elementi fondanti della propria identità, che in quanto tali non si ritengono modificabili».

 

Selezionare significa perdere o crescere?

 

Ma come funziona il processo di selezione che permette di intervenire su di noi (e l’ambiente che ci circonda) senza perdere proprio la nostra identità, puntando invece a un processo di crescita?

(Potete approfondire il tema anche in un mio post precedente, “Non si può morire dentro”)

Per questo vi chiedo di abbandonarvi per un momento alla metafora floreale. 

Per loro natura, i fiori possono durare solo un solo giorno. Altri, se non innaffiati, sfioriscono. Altri maturano per lasciare il posto ai frutti. Pensate a quello che in questi mesi è “spuntato” in voi o nella vostra famiglia: potreste non averlo notato in modo chiaro o potreste esservene già dimenticati, presi dalla foga della ripresa.

Quali sono i fiori sbocciati in questa nuova umanità?

 

Il fiore della vicinanza. Quanti hanno avuto molti più contatti telefonici, telematici o via social in questo periodo? Personalmente, ho sentito amici, conoscenti e familiari di cui non avevo notizie da molto tempo, e tutto ciò mi ha fatto molto piacere, tanto che ho mantenuto l’abitudine agli scambi di notizie anche dopo la riapertura.  Un fiore sbocciato da coltivare. Certo, ora c’è meno tempo, ma abbiamo utilizzato (e in alcuni casi, scoperto) canali alternativi di comunicazione, per scoprire che l’impossibilità di vedersi di persona non deve essere un freno alla socializzazione. Perché la vicinanza relazionale è possibile anche se siamo distanti fisicamente.

 

Il fiore della relazione. Durante il lockdown, abbiamo trascorso più tempo con le persone con cui conviviamo abitualmente, ma con una dimensione temporale sensibilmente diversa: un tempo in compresenza più dilatato, maggiori attività condivise. Prima della pandemia, il lavoro, la scuola, le attività fuori casa, riducevano il tempo della convivenza, limitandolo a pochissime occupazioni. Frequentarsi più del solito e in un ambiente fisico ristretto, per molti non è stato facile, vista la scarsa abitudine alla condivisione di spazi e di attività. Chi ha potuto superare queste difficoltà, ha però sperimentato un miglioramento delle relazioni, più intense e vissute.

 

Il fiore della tolleranza. Ci siamo messi in fila ovunque: al supermercato, alla posta, in banca. Non subito, ma nelle settimane centrali del lockdown era tale la consapevolezza (la paura?) della pericolosità della vicinanza fisica da rendere la maggior parte di noi più pazienti, più disponibili ad attendere il nostro turno. È questo il fiore che sento più a rischio di rapida estinzione, il più delicato e fragile.

 

Il fiore della creatività. Questo periodo è stato un momento di crescita e di ri-scoperta delle proprie abilità, del fare o vivere qualcosa di completamente nuovo (o con modalità nuove). Dall’impasto per la pizza al pane fatto in casa, dalla tinteggiatura al cucito, dal riparare una bicicletta al fare un acquisto on-line, dall’utilizzare skype o zoom allo scrivere una poesia. Le difficoltà aguzzano l’ingegno, e non è un modo di dire. Gli individui sono psicologicamente adattabili, se non restano troppo rigidi.

L’elogio del cambiamento

 

Qualche volta, attraversare una situazione traumatica può arricchire.

 

I risultati potranno essere inattesi, si potrà scoprire qualcosa di nuovo su sé e la propria identità.

 

Il cambiamento è possibile: il processo di evoluzione e crescita può essere complesso, doloroso, spinoso, ma può portare a stare meglio, psicologicamente.

Un caro ringraziamento, anche questa volta, a Paolo Mazzo per la fotografia.

 

 

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Quand’è che ho cominciato a guardare il mondo da un oblò

Quand’è che ho cominciato a guardare il mondo da un oblò

 

 

 

 

Quand’è che ho cominciato a guardare il mondo da un oblò

 E perché vi consiglio di affacciarvi al mio blog (e al mio romanzo)

 

 Questa è la storia di come è nato il mio romanzo “Se guardo il mondo da un oblò“. 

 Tutto inizia quando ho deciso di scrivere… un saggio. Per la precisione, un approfondimento di psicologia sul tema della narrazione. La ricerca è stata lunga: ho iniziato con articoli e testi scientifici. Poi sono passata a spulciare le prefazioni dei romanzi che avevo a casa, in cui spesso gli autori “confidano” ai lettori come sono nati i loro personaggi. Ho anche contattato alcuni scrittori per un’intervista, incuriosita dalla scrittura come esperienza psicologica. Ho preparato un accurato indice degli argomenti, ho iniziato la stesura dei primi capitoli. E lì, mi sono arenata. La curiosità iniziale era svanita ed erano subentrati noia, fatica, scarsa motivazione a proseguire.

 E poi, è arrivata Laura, quella che sarebbe diventata la protagonista di “Se guardo il mondo da un oblò”. Ma ancora non lo sapevo. 

 Lei ha iniziato a “mostrarmi” una serie di situazioni, il suo vissuto. Era strana, faceva cose insolite. Si auto-isolava (precedendo tutti noi, dato che la pandemia era ancora lontana dalle nostre vite!), selezionava in modo accurato i suoi contatti sociali. Teneva le distanze, teneva a distanza. E non era molto felice.

 Ho capito che potevo darle ascolto, che dovevo darle una possibilità, anche se non sapevo, esattamente, dove questa possibile esperienza mi avrebbe portato. Molti scrittori dicono che i loro personaggi arrivano senza preavviso, ma non avrei mai pensato accadesse a me: non avevo frequentato corsi di scrittura creativa e, prima di allora, non avevo mai pensato di scrivere un romanzo o un racconto.

 Laura mi accompagnava nelle mie giornate, qualche volta mi sussurrava qualcosa all’orecchio. Le ho dato una professione, e un modo di esercitarla che le si addicesse. Un’amica, un fidanzato, dei genitori. Mi ha raccontato le sue giornate, le sue attività, le sue paure, le sue preferenze, le sue ossessioni, le sue tristezze (come può capitare in una seduta psicologica ma soprattutto come accade quando ci si fida – e affida – a qualcuno). I suoi incontri e i suoi non-incontri. Ho cominciato anch’io, come Laura, a guardare il mondo da un oblò. Ad adottare il suo punto di vista. La protagonista usa la fotografia come un filtro attraverso cui approccia la realtà: io usavo Laura, il suo modo di essere, il suo funzionamento mentale per decodificare le immagini che via via mi arrivavano e in cui la vedevo protagonista. 

 

Entrando in contatto empatico con il modo di essere di Laura, cercavo di dare significato a questi e ad altri quesiti.

 

Un paio di anni fa, la storia era a buon punto. C’era la protagonista, gli altri personaggi, uno svolgimento e una conclusione. Eppure, sentivo che mancava qualcosa. Mi mancavano delle immagini: pensavo, con insistenza, che il racconto per sentirsi completo avesse necessità di essere corredato di immagini fotografiche. In quel periodo, ho chiesto al fotografo Paolo Mazzo di iniziare una collaborazione. Con molta generosità (e, devo dire, anche coraggio!) ha accettato di iniziare un percorso di lavoro insieme. Paolo è un fotografo che ama l’architettura e i grandi spazi esterni: in questa esperienza ha accettato di avventurarsi nella mente di Laura, che intende la fotografia in modo molto diverso da lui, prestandole immagini utili a rappresentare il suo stato d’animo che mutava con il progredire della narrazione. La sua collaborazione è stata preziosa anche per l’organizzazione grafica delle pagine, per revisionare l’intero testo e per predisporne l’involucro: la copertina e il suo retro.

 Quello che ne è nato è sotto i vostri occhi, pronto per essere letto e guardato.

Ora che la storia di Laura è stata pubblicata e può essere letta, sono molto grata di questo percorso, di questa avventura: costruire un personaggio, confezionarle intorno una narrazione, e seguirlo nelle sue evoluzioni. Un’esperienza preziosa, anche se sicuramente non facile né immediata. La generazione di un personaggio e della sua storia (come tutte le nascite!) prevede una serie di passaggi. Alcuni di questi sono particolarmente impegnativi e possono causare sofferenza. Così come, quando nasce un figlio, i suoi genitori devono mettere a confronto il bambino che si sono immaginati durante la gestazione con quello reale, anche chi crea un personaggio e una storia deve fare i conti con la realtà di quello che ha creato. 

Qualche volta ciò che si è inventato non piace. O inquieta. O fa arrabbiare. 

Perché i personaggi hanno una loro vita autonoma e un loro preciso carattere. 

Altre volte, chi scrive pensa di avere creato un capolavoro. E non accetta di mettere in discussione questa idea, così come certi genitori sono convinti che il proprio figlio è sempre e comunque la persona migliore del mondo.

La narrazione immaginaria mette a contatto con emozioni molto intense, a volte difficili da gestire. Non sempre ci sono le risorse psicologiche per poter tollerare, contenere, rielaborare ciò che via via si sperimenta.

 Da lettori, invece, assistiamo al processo della narrazione creativa da una posizione privilegiata: stando alla finestra. Leggendo – e identificandosi con il protagonista e con gli altri personaggi – possiamo seguire il percorso di un soggetto stando a dovuta distanza, senza doversi immergere nel “bagno di sangue” emotivo della scrittura creativa. 

Se è vero (ed io credo di sì) che scrivere può arricchire perché consente una dilatazione del Sé, tramite l’opportunità di dare spazio ad angoli della personalità non ancora esplorati e di amplificarli, leggere permette di moltiplicare le proprie esperienze di vita.

Come diceva Umberto Eco:

Chi non legge a 70 anni avrà vissuto una sola vita: la propria. Chi legge avrà vissuto cinquemila anni: c’era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l’infinito. Perché la lettura è un’immortalità all’indietro.

 

Per questo oggi vi faccio una proposta: affacciatevi all’oblò. Guardate quello che nasce, che cambia, cresce e matura in questo romanzo. Sarà come vivere, oltre alla vostra, un’altra vita.

Un ringraziamento a Paolo Mazzo per la foto!

 

 

 Ti è piaciuto l’articolo? Leggi gratis un estratto del mio libro!

 

 

 

 

 

 

 

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