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Non si può morire dentro

Non si può morire dentro

Non si può morire dentro

Come sopravviveremo emotivamente alla pandemia

“ Mi dicono che quando si è rinchiusi al buio bisogna dimenticare tutto, altrimenti si soffre troppo; ma io, qui, mi sono abituato a vedere il mare, la luce. Mi basta il rumore delle onde, sento tutto e vedo molto, immagino anche quello che non esiste. “

 

Il brano è tratto da un film del 1999, “La balia”, di Marco Bellocchio. Un uomo è incarcerato, non sappiamo dove. Da spettatori ascoltiamo, però, questo stralcio di lettera da lui indirizzata ad Annetta, la donna che ama e che da poco ha avuto un figlio da lui.

 

E’ vero che per resistere, emotivamente, abbiamo dovuto dimenticarci della realtà esterna? Che sarebbe stato troppo doloroso tenere a mente la bellezza della natura, la gioia degli incontri, l’adrenalina delle partenze, il senso di continuità dell’esistenza dato da giornate scandite dagli impegni e dalla quotidianità?

 

Alcune persone pensano, in generale, che ricordare sia pericoloso perché ci tiene legati. Pensano alla memoria come un ingombrante fagotto che ci portiamo dietro e che diventa una zavorra che impedisce nuove esperienze e nuovi incontri.

 

Certo, non si può vivere nel passato e costantemente nel ricordo di giornate che non ci sono più, di persone che, per diverse ragioni, si sono allontanate da noi. In quel caso non riusciremmo a condurre la nostra esistenza nel tempo presente, l’unico tempo che abbiamo, concretamente, la possibilità di sperimentare.

 

E’ altrettanto vero che non possiamo proiettarci troppo nel futuro, perché troppo imprevedibile ed incerto: chi avrebbe potuto immaginarsi la pandemia mondiale? Aveva senso impiegare energie (materiali, personali, emotive) per prepararsi all’eventualità di una situazione simile?

 

Rimanendo troppo confinati nel nostro passato possiamo essere portati ai rimpianti, a rimuginare su tutto ciò che potevamo fare e non abbiamo fatto. Facciamo bilanci fra quello che volevamo e ciò che abbiamo ottenuto. Spostando invece la nostra attenzione costantemente verso il futuro, ciò che rischiamo è di  torturarci con gli “e se…”, “ho paura che…” in un dialogo costante con le nostre preoccupazioni.

 

Per uscire, però, dall’isolamento (per alcuni volontario, per altri obbligato) e dalla condizione emotiva in cui tutti ci siamo trovati coinvolti (anche chi ha proseguito, in tutto o in parte, le proprie attività) forse ci serve qualcos’altro. Ascoltiamo ancora le parole rivolte ad Annetta.

 

“Si può uccidere fisicamente o socialmente un uomo, ma non lo si può costringere a dimenticare i desideri, il sorriso degli altri, le carezze inattese, la bellezza di ciò che ha vissuto… se stesso.”

 

Il ricordo di ciò che è stato è prezioso. Non solo il ricordo degli eventi, ma anche delle emozioni e degli stati d’animo sperimentati, delle interazioni che abbiamo avuto con gli altri, perché tutto ciò dà continuità alla nostra esistenza. Ci ricorda chi eravamo, chi siamo e chi potremo essere: noi stessi.

Così potremo uscire dalla pandemia e dalle sue conseguenze sociali. Non dobbiamo dimenticare, perché ricordando possiamo sentirci in continuità fra prima e dopo, sentirci persone intere e non spezzate da quanto è accaduto.

 

Perché è conservando la memoria della luce che si esce dal buio.

Vorrei ringraziare Mariarosa Lombardi per la bellissima fotografia di copertina che mi ha concesso di utlizzare.

 

 

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Incipit: breve elogio dell’inizio

Incipit: breve elogio dell’inizio

 

Incipit: breve elogio dell’inizio

Avevo fatto una scommessa.

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In questi tempi di isolamento, i consulenti di marketing e copywright dobbiamo trovarceli in casa… Ne avevo parlato con mio figlio ventenne, che in questi giorni mi sta aiutando a stendere i testi per il blog. E lui era stato molto critico: “Che razza di tema è, l’incipit? A chi vuoi che interessi!”

Allora, abbiamo fatto una scommessa. Gli ho detto che avrei sondato l’argomento con un gruppo di lettori, predicendo che l’argomento sarebbe stato di interesse. Ho scritto un post sulla pagina Facebook Un libro tira l’altro ovvero il passaparola dei lettori.

Ho vinto io. In 36 ore, 295 commenti e 86 like

 

Ai partecipanti va il mio ringraziamento, per i numerosi riscontri… ed anche naturalmente, per la ricavata soddisfazione di essere nel giusto, pensando che gli inizi sono un tema curioso per gli amanti della lettura.

La maggioranza dei lettori che si sono espressi dice che, nella scelta di un libro, le prime frasi sono cruciali, una sorta di passaporto. Queste persone rievocano le prime parole dei testi che amano. Anche se non le ricordano letteralmente. E’ come se ne richiamassero alla memoria il profumo: piacevole, inebriante, intenso, delicato. 

Molte persone hanno ricordato le prime parole con cui iniziano “I promessi sposi” di Alessandro Manzoni. Chissà la gioia dei nostri insegnanti, che dovranno ora sentirsi ripagati delle ore di lezione, lettura, compiti in classe e interrogazioni sull’argomento!

Tante, tante persone hanno citato un altro incipit:

“Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo”

E’ l’inizio di Anna Karenina di Tolstoj, libro tanto noto quanto corposo (1000 pagine buone), citato in numerosi altri libri e film. 

E’ il libro che la barista Tereza tiene sul bancone all’inizio di L’insostenibile leggerezza dell’essere di Milan Kundera, e che la legherà a quel medico, di passaggio nel bar dove lavora, che si è incuriosito alla sua lettura.

L’incipit di Anna Karenina “smaschera” Renée de L’Eleganza del riccio di Muriel Barbery, portinaia di un condominio di lusso a Parigi: l’averlo citato a memoria la rende visibile (lei che si era costruita un nascondiglio perfetto) e fonte di interesse per Kakuro Ozu, raffinato e colto giapponese, da poco trasferitosi nel condominio, e cambierà il corso della sua esistenza.

Insomma, gli inizi ci stregano, a volte. Il loro ricordo ci accompagna per molto, molto tempo, forse per sempre. Il suono di quelle parole ci rincorre in altri libri.

Come si spiega tutto ciò?

Anzitutto, pensiamo al valore della curiosità. Oltre ad un potente motivatore, la nostra curiosità ci orienta. Ci aiuta a scegliere che cosa prendere in considerazione, all’interno del bagno di informazioni in cui siamo costantemente immersi.

La nostra curiosità ci guida e ci fa prestare attenzione ad una – personale – selezione di argomenti. 

La nostra attenzione, però, è un sistema a capacità limitata. Non possiamo stare in allerta su tutto, su troppe cose contemporaneamente. E’ necessario fare delle scelte. Se un argomento smette di incuriosirci, smettiamo di prestare attenzione.

Ci orientiamo su altro, e ci risparmiamo la fatica di processare quell’informazione, che – verosimilmente – a distanza di pochi minuti non ricorderemo più. 

La nostra curiosità viene influenzata da molti fattori. Dal nostro stato d’animo, da ciò che ci ha stimolato in passato e di cui conserviamo memoria. Dal nostro livello di stanchezza. Dalla curiosità degli altri. Da come siamo fatti, dal momento in cui ci troviamo. 

Pensiamo poi alle immagini che vengono evocate dalle parole. Alcune parole, alcune frasi, alcuni modi di scrivere sono sicuramente più “potenti” di altri per evocare immagini nella nostra mente.

Alcuni incipit suscitano scenari multisensoriali, come se da subito volessero condurre il lettore nel centro di una storia immergendolo in un bagno di sensi. Prendete, ad esempio, questo.

“Era inevitabile. L’odore delle mandorle amare gli ricordava sempre il destino degli amori contrastati. Il dottor Juvenal Urbino lo sentì non appena entrato nella casa ancora in penombra, dove si era recato d’urgenza ad occuparsi di un caso che per lui aveva smesso di essere urgente già da molti anni.” (L’amore ai tempi del colera, di Gabriel Garcìa Màrquez).

Altri testi agganciano il potenziale lettore perché lo mettono subito al centro della storia, in equilibrio (o in disequilibrio?)  fra un passato ed un futuro, che devono ancora essere raccontati.

L’incipit contiene la promessa di svelare entrambi, e che la narrazione sarà interessante.

“Barrabàs arrivò in famiglia per via mare, annotò la piccola Clara con la sua delicata calligrafia. Già allora aveva l’abitudine di scrivere le cose importanti e più tardi, quando rimase muta, scriveva anche le banalità, senza sospettare che, cinquant’anni dopo, i suoi quaderni mi sarebbero serviti per riscattare la memoria del passato, e per sopravvivere al mio stesso terrore.” (La casa degli spiriti, di Isabel Allende)

 

Le prime frasi sono importanti per lo scrittore. Non solo, però, per catturare il lettore. 

Ma questa, come direbbe Carlo Lucarelli, è un’altra storia.

 

 

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Libri per l’isolamento

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Libri per l’isolamento, tipi da quarantena.

Ho letto un libro, pochi giorni prima della quarantena. Era appena uscito.

E in questo periodo, ci ho pensato spesso. Il primo dei libri per l’isolamento è “Senti che vento” di Eleonora Sottili.

E’ il 2000, l’anno del nuovo millennio, uno di quegli anni dalle cifre tonde che spesso mettono un po’ di inquietudine.

E’ l’inizio di un autunno stranamente caldo e piovoso a Bocca di Magra dove, in una casa sul fiume, vivono tre donne.

Due di loro sono madri. Due di loro sono figlie. E una è sia madre che figlia. Sono le donne di tre generazioni.

Agata, la più giovane fra loro, è prossima a lasciare quella casa. Sta per sposarsi. Piove forte, però, sempre più forte.

Durante una di quelle notti di preparativi e di allerte, il vento soffia impetuoso, la piena rompe gli argini, e l’acqua inonda il pianterreno delle abitazioni. Le tre donne si rifugiano ai piani superiori e, come esplicitando un patto familiare, decidono di non abbandonare la loro casa.

Trascorreranno in quel luogo i giorni della piena.

Il racconto, da parte di Agata, di quel periodo di sospensione si interseca con quello dei mesi precedenti, del proprio passato, prossimo e remoto.

La piena del fiume fa riemergere immagini e ricordi.

Come se si trattasse di una nuova partita a carte, i giochi si riaprono. Gli oggetti possono essere investiti di nuovi significati. Gli eventi possono essere rievocati e riletti con maggiore profondità.

Le relazioni ed i legami possono essere ripensati.

Non si può morire dentro - Se guardo il mondo da un oblog

Ed è preziosa per Agata questa possibilità, di gettare nuova luce sulle esistenze delle generazioni che l’hanno preceduta, ora che lei si accinge ad affrontare la sua dimensione di persona adulta.

Ho ripensato spesso a questo romanzo nelle scorse settimane, dicendomi che è quando la solita vita si ferma e qualcosa ci obbliga ad azzerare tutto, che possiamo incrociare eventi, immagini, ricordi in modo diverso, ed avvicinarci ad un nuovo modo di ragionare.

Perché i momenti di sospensione sono luoghi di pensiero, e così anche questo nostro, attuale, periodo di isolamento può dare terreno a nuovi pensieri, nuovi progetti, nuovi punti di vista.

Avete presente ciò che scrive Murakami in “Kafka sulla spiaggia”?

“Quando la tempesta sarà finita, probabilmente non saprai neanche tu come hai fatto ad attraversarla e a uscirne vivo. Anzi, non sarai neanche sicuro se sia finita per davvero. Ma su un punto non c’è dubbio. Ed è che tu, uscito da quel vento, non sarai lo stesso che vi è entrato”.

C’è un altro “tipo da quarantena”. E’ un tipo veramente tosto, per stomaci robusti.

Se siete in questa condizione, il secondo dei libri per l’isolamento è “La strada” di Cormac McCarthy.

Non si può morire dentro - Se guardo il mondo da un oblog

Un uomo e un bambino si muovono in un mondo distrutto, desolato, popolato da pochi sopravvissuti, in uno scenario post-apocalittico.

Sono un padre e un figlio. Il territorio in cui si muovono è quello nordamericano.

Vivono sulla strada, in perenne movimento. Si spostano perché nel loro mondo, in quel mondo distrutto, le abitazioni sono i luoghi più insicuri, più pericolosi.

Sono armati. Tutto ciò che hanno è nei loro zaini e in un carrello del supermercato, un contenitore con le ruote, su cui il padre ha collocato uno specchietto retrovisore per guardarsi le spalle.

Si muovono verso una meta, perché il padre ha una speranza e una paura.

Leggendo questo racconto, ci si rende immediatamente conto di ciò che tutti noi abbiamo, pur in questa situazione difficile: una casa, un luogo sicuro dove stare.

Una casa diventata un po’ una prigione, dove tutti ci sentiamo quasi agli arresti domiciliari senza aver commesso nessun delitto: eppure, un luogo che ci protegge.

 

Un luogo dove è spesso possibile coltivare buone relazioni, o ritrovarle. Un posto dove cucinare, nutrire il corpo e l’anima, scaldarsi, curarsi, riposare.

E scusate se è poco, mi viene da dire, pensando a quel padre e a quel figlio sulla strada. Una Strada dove ci si può muovere, ma in quali condizioni, e a che prezzo.

All’inizio della pandemia, in Italia ci siamo messi in fila davanti ai supermercati. Negli Stati Uniti, le persone hanno fatto la coda per acquistare un’arma.

Vedendo quelle immagini, non ho potuto fare a meno di ripensare a “La strada”.

L’ultimo dei libri per l’isolamento a cui ho pensato è invece un racconto poetico, molto delicato.

Il protagonista de “Le ricette della signora Tokue” del giapponese Durian Sukegawa è Sentaro, un uomo di circa quarant’anni, che vive lavorando in un baracchino dove cucina e vende dorayaki, un tipico dolce giapponese a base di pandispagna, che viene farcito con una marmellata di fagioli rossi.

E’ primavera, i ciliegi sono in piena fioritura, e i petali profumati sono ovunque nell’aria. In quelle giornate, Sentaro viene avvicinato da una donna anziana, che si offre di lavorare per lui.

L’uomo è molto perplesso, perché sì, avrebbe bisogno di un aiuto, ma non pensava ad una persona così anziana!  

E poi la signora Tokue sembra avere qualche difficoltà di movimento. E quelle mani ricurve, le consentono di lavorare?

Sentaro rifiuta la proposta, ma Tokue è tanto gentile quanto insistente. Fa assaggiare al pasticcere la marmellata di fagioli rossi che lei confeziona da cinquant’anni… e quella preparazione ha un sapore strepitoso.

Tokue inizia a lavorare con Sentaro, che a quel punto è desideroso di scoprire il segreto della preparazione della marmellata.

Perché Le ricette della signora Tokue è un tipo da quarantena? Anzitutto perché, in questo periodo, quello della cucina è un argomento che sollecita l’interesse di molti fra noi: come Sentaro, siamo attratti dalla ricetta e dai suoi trucchi.

Ma la gentile signora Tokue ha ben altro da raccontarci… una storia che ha a che fare con la malattia, l’isolamento e – soprattutto – con la gioia del vivere.

 

E voi, che libri state leggendo? Quali consigliereste?

Lasciate un commento qui sotto!

 

 

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Libertà, fronte e retro.

Già, libertà. Ma che cosa intendiamo per libertà? Farci gli affari nostri? Stare con gli amici più cari? Fare ciò che più ci piace? Non curarci delle regole e dei limiti sociali? Dire ciò che ci passa per la testa?

Se chiedessimo a dieci persone diverse che cosa significa per loro sentirsi liberi e in quali situazioni sperimentino una simile condizione, riceveremmo – probabilmente- dieci risposte diverse. Perché quello di libertà è, soprattutto, un concetto relativo, declinato da ciascuno nella propria soggettività.

In queste settimane, tutti noi abbiamo limitazioni alla libertà individuale, in nome di una libertà più ampia, la libertà/diritto di ciascuno alla salute e all’accesso alle cure. Abbiamo avuto prescrizioni simili, eppure ognuno di noi le ha vissute a proprio modo. C’è chi non ha avuto dubbi dall’inizio, e si è immediatamente adeguato. C’è chi ha avuto bisogno di più tempo. C’è chi si è opposto, e chi invece si è messo tranquillo, in attesa. C’è chi si è spaventato e ha reagito con grande preoccupazione. Ognuno di noi è fatto a suo modo, e reagisce a eventi simili in modo diverso.

Perché c’è chi, per sentire il profumo della libertà, ha bisogno di salire: scalare le montagne, salire su un grattacielo, cavalcare un’onda, prendere un aereo. C’è invece chi ha bisogno di buttarsi nel vuoto, di tuffarsi nell’oceano. C’è chi ha bisogno di solitudine e di silenzio. C’è chi ha bisogno di muoversi, di camminare, di correre.  C’è chi si sente libero se non è mai nello stesso posto. Chi, invece, solo se anche gli altri sono liberi. C’è chi si sente libero se ha molto denaro e può acquistare ciò che desidera. C’è invece chi si sente libero solo se non possiede nulla: né case, né auto, né famiglia. C’è chi si sente libero solo se inventa, se crea qualcosa che prima non c’era.

Il nostro, soggettivo, senso di libertà ci orienta nelle scelte di vita e di condizione. Se possiamo, scegliamo un lavoro che ci faccia avvicinare il più possibile al nostro ideale di persone libere. Se non possiamo farlo, o se non teniamo conto del nostro ideale, il nostro senso di libertà ci chiede il conto… e ci sentiamo frustrati, ingabbiati.  Single o in coppia? Figli o non figli? Anche in questo caso, le nostre idee sulla libertà ci orientano…

Per alcune persone, seguire il proprio ideale di libertà può comportare scelte radicali.

E’ quanto diceva Dante

“libertà va cercando, ch’è sì cara

come sa chi per lei vita rifiuta”

(Purgatorio, canto I vv. 70-72)

 

Che cosa succede se la libertà non si limita a orientare la nostra vita, ma ci spinge – in tutto o in parte- a rifiutarla?

 

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Non era prevedibile.

Chi si sarebbe immaginato che, nel giro di poche settimane, ci saremmo ritrovati a passare le nostre giornate all’interno delle nostre case stando alla finestra? Che tutti noi avremmo osservato il mondo da un oblò?

Probabilmente, nessuno. O pochi fra noi, forse solo i più pessimisti.

Era difficile ipotizzare che la maggior parte delle persone avrebbe vissuto in modo radicalmente diverso dalle proprie abitudini. Soprattutto, per quanto riguarda la distanza fra noi e gli altri, tutti gli altri.

In questi giorni siamo stati caldamente invitati ad autoisolarci, a stare in casa, a tenere a debita distanza tutte le persone che dobbiamo per forza incontrare. E’ una misura estrema, giustificata da una situazione grave. E’ rischioso stare troppo vicini. La posta in gioco è la nostra salute. Per alcuni, i più fragili, la posta in gioco è la sopravvivenza.

Autoisolamento e aumento della distanza sono cruciali anche in caso di un grave rischio psichico. Se siamo in una situazione di fragilità e chi ci sta intorno è dannoso per noi, se possiamo prendiamo le distanze. Ci allontaniamo mentalmente, cerchiamo di non far caso a quanto ci viene detto, chiesto, ordinato. Facciamo in modo di evitare di incontrare le persone che potrebbero aumentare le nostre sofferenze. Se proprio non possiamo, cerchiamo di passare con loro meno tempo possibile, e a distanza: utilizzando la mediazione del telefono, della messaggistica, o altre.

In queste settimane di restrizioni alla mobilità e alla vita sociale, sono consentite delle aperture, delle deroghe. Perché anche nell’isolamento è indispensabile avere la garanzia del nutrimento, e quindi nel muro c’è una breccia, un passaggio, una porta di casa che possiamo aprire per uscire.

Anche nell’isolamento psichico, per la sopravvivenza, sono necessarie delle aperture. Anche le persone più solitarie e ritirate hanno bisogno di un po’ di vita sociale, e quindi ci sono delle aperture, utili a fare filtrare un po’ di relazione, un po’ di scambio con gli altri. Le persone solitarie però, non abituate alla quotidianità delle relazioni, spesso utilizzano malamente questi momenti di apertura, e ciò che entra e esce in queste situazioni può non essere così funzionale… Alle volte si precipitano fuori, scoperte al rischio di incontrare proprio le persone da cui dovrebbero fuggire…   In alcuni casi e frangenti, anche in seguito a disillusioni, l’apertura emotiva verso il mondo esterno si riduce di dimensioni. Le porte non si possono più aprire, si può solo osservare il mondo dallo spioncino, da una piccola apertura circolare che consente di guardare senza essere visti, e di esercitare un forte controllo su tutte le persone che si avvicinassero alla porta. Perché lì, nel mondo esterno, tutti potrebbero essere spie. 

In altri, più felici casi, in altre situazioni, l’autoisolamento si può modificare. Lo spioncino può diventare una finestra, e poi una porta che sia apre, per lasciare entrare e per poter uscire.

Nulla è per sempre, e il cambiamento è possibile…

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